La conservazione degli Psittacidi 

I pappagalli risultano essere senza dubbio tra gli uccelli più conosciuti, amati e desiderati in cattività. La loro presenza nelle case di amatori ed allevatori è ormai una consuetudine da ben più di un secolo, ma ci siamo mai chiesti come se la passano le popolazioni selvatiche? 

Un dato su tutti che risulta essere già di per sé allarmante è : l’ordine Psittaciformes (i pappagalli, appunto) il quale dimostra essere in natura, il più danneggiato tra gli uccelli del mondo, e all’interno di esso, (quasi il 30% delle circa 390 specie esistenti oggi) è classificato come “danneggiato in natura” da IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura). 

L’emergenza globale esistente deve però essere necessariamente valutata e affrontata in maniera diversa a seconda del target, fermo restando che una tra le più grandi minacce in assoluto per i pappagalli selvatici sia la deforestazione e la conseguente perdita di habitat naturale. L’antropizzazione sempre più invasiva in un pianeta ormai divenuto “piccolo” ha causato il crescente sfruttamento delle foreste per l’agricoltura intensiva, per l’estrazione commerciale di minerali, per i pascoli destinati al bestiame in genere, rendendo così durissima la vita di alcune specie particolarmente sensibili a determinati ecosistemi.  

Una seconda piaga per i pappagalli sono state le catture per scopo commerciale che nelle passate decadi hanno ridotto in maniera pesante il numero degli animali selvatici. Prima dell’entrata in vigore della CITES (Convenzione Internazionale sul Commercio delle Specie Minacciate), i prelievi in natura sono stati incontrollati e la domanda da parte dei paesi “ricchi” ha esercitato una grossa spinta per esportare centinaia di migliaia di soggetti da parte dei paesi meno sviluppati. 

Possiamo affermare che entrambe le sopracitate cause, congiuntamente, siano la principale spiegazione del decremento di popolazioni di pappagalli che oggi rischiano davvero l’estinzione.  

Un esempio sono i pappagalli indonesiani e del sudest asiatico in genere, quali il Cacatua sulfureo (Cacatua sulphurea), Cacatua delle palme (Probosciger aterrimus) varie specie di lori e lorichetti (Trichoglossus forsteni mitchelli, Eos histrio, Lorius garrullus, solo per citarne alcuni). Alcune specie danneggiate in questa zona, oltre ad aver avuto una perdita di habitat, possono disporre di territori molto ridotti vista la geofisica del luogo, suddiviso com’è in tante piccole isole separate da larghi tratti di mare. Come se non bastasse, le popolazioni locali spesso ricorrono al bracconaggio dei nidi per ottenere pappagalli da compagnia e questo non fa che peggiorare la situazione. 

In Australia non va molto meglio e diverse specie sono a grosso rischio, tra cui: il Cacatua di Carnaby (Calyptorhynchus latirostris), vittima spesso della siccità e della perdita dei siti di nidificazione, il Parrocchetto veloce (Lathamus discolor) e il Parrocchetto delle rocce (Neophema petrophila). In Nuova Zelanda il Kakapo (Strigops habroptilus), straordinario esempio di diversità nel mondo dei pappagalli, paga lo scotto dell’introduzione di gatti e roditori da parte dei primi colonizzatori, così si trova letteralmente decimato e sull’orlo dell’estinzione. 

In Africa possiamo citare il Pappagallo cenerino (Psittacus erithacus) esportato in numeri esorbitanti, il Pappagallo del Capo (Poicephalus robustus), il quale vede scomparire le foreste di Podocarpus da cui dipendono in Sudafrica, o gli ormai famosi Inseparabili dalle guance nere (Agapornis nigrigenis) che perdono i loro alberi di Mopane. 

Nel continente americano le cose non vanno meglio: in Brasile orientale si è perduta definitivamente l’ultima Ara di Spix in natura (Cyanopsitta spixi) e in cattività si cerca di risalire la china dalle circa 200 rimaste nei centri specializzati. Altre grandi ara faticano notevolmente a sopravvivere: l’Ara ambigua (Ara ambiguus) in Costa Rica, l’Ara di Lear (Anodorhynchus leari) nel cerrado brasiliano, l’Ara fronte rossa (Ara rubrogenys) e l’Ara gola azzurra (Ara glaucogularis) in Bolivia, l’Amazzone del Brasile (Amazona brasiliensis) nella foresta atlantica e le altre grandi amazzoni nelle minuscole foreste caraibiche (Amazona imperialis; Amazona guildingi; Amazona arausiaca; Amazona vittata), i grandi e piccoli conuri (Guarouba guaruba; Ognorhynchus icterotis; Pyrrhura orcesi; Pyrrhura griseipectus; Pyrrhura viridicata; Eupsittula euops). Tutte queste specie citate fronteggiano attualmente la contrazione dell’habitat, la perdita delle piante essenziali da cui dipendono, ma anche le catture illegali. 

Vi è da segnalare che ogni singolo caso presenta delle criticità legate al territorio, al clima e alle calamità della zona (siccità, uragani, incendi, ecc..), alla politica e alle leggi locali, all’educazione ambientale e alle tradizioni popolari, alla possibilità di impiantare centri di recupero e riabilitazione. Insomma, le singole situazioni sono molto diverse e possono essere affrontate dai conservazionisti solo attraverso studi approfonditi da un alto grado di specializzazione. 

Mariano PISCOPO

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